Thursday, 27 November 2008


"La memoria è dinamica, è viva. Riempie tutti i buchi del passato, anche con ricordi irreali".



Io ho la fortuna, voluta, di vivere a Londra e questa città a me “fa molto”. Inteso come luogo che condiziona umore, abitudini, pensieri e scansione del tempo. I luoghi, in generale “fanno molto”. I luoghi che cambiano aspetto hanno un potere ancora maggiore di incidere sulle percezioni.


Ieri sera sono andato al Barbican a vedere “Waltz with Bashir”, un nuovo eccezionale film israeliano, un documentario a figure animate diretto da Ari Folman.


Siamo a Beirut, nel 1982, durante la guerra civile. Il titolo del film si riferisce alla folle danza, con mitra, di un soldato, che spara all’impazzata, sotto il ritratto gigante di Bashir Gemayel, il politico libanese ucciso in un attentato prima dell’investitura a Presidente della Repubblica. Per vendicarlo, i falangisti cristiani massacrarono migliaia di profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila, con la complicità involontaria dei soldati israeliani che li lasciarono fare e addirittura facilitarono loro il compito illuminando la notte con i bengala. Il regista israeliano Folman, che all'epoca aveva vent'anni e faceva parte delle truppe che avevano circondato gli insediamenti, ha completamente rimosso dalla propria mente quegli eventi.


Incontra in un bar un amico di vecchia data, che gli racconta un incubo ricorrente, in cui è inseguito, nella notte, da un branco di ventisei cani inferociti. Ha la certezza del numero perchè, quando l'esercito israeliano occupava una parte del Libano, a lui, evidentemente ritroso nell'uccidere gli esseri umani, era stato assegnato il compito di uccidere i cani che di notte segnalavano abbaiando l'arrivo dei soldati. I cani eliminati erano giustappunto 26. In quel momento Folman si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante quei mesi che condussero al massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila. Decide allora di intervistare dei compagni d'armi dell'epoca per cercare di ricostruire una memoria che ognuno di essi conserva solo in parte cercando di farla divenire patrimonio condiviso.


Folman affronta con coraggio uno dei nervi scoperti della storia recente della democrazia israeliana. Non è però interessato a distribuire patenti di colpevolezza senza prove (sono note le accuse all'allora Ministro della Difesa Ariel Sharon considerato responsabile del fatto di aver saputo e taciuto, se non addirittura favorito).


Folman scava più a fondo e decide di realizzare un documentario rivolto a un pubblico di nicchia. Racconta allora utilizzando un'animazione inusuale ma efficace che riesce a restituire il work in progress di un rimosso e passa a focalizzare una realtà orrenda che, proprio perchè tale, era stata espunta dal ricordo del singolo e della collettività. Chiedendo aiuto ad uno psicologo, che gli spiega i meccanismi misteriosi della memoria, Ari decide di dissotterrare quelle memorie e parte alla ricerca dei suoi commilitoni. Dai ricordi frammentari e dalle immagini evocate dagli amici, anche Ari inizierà a recuperare stratificazioni di memorie, sogni surreali, fino al ricordo completo: una sorta di seduta collettiva che aiuterà a fare chiarezza al regista e al pubblico stesso. “La memoria” come dice lo psicologo “può essere molto creativa. Quando è necessario, si inventa un passato”. Come ci si può aspettare, nel film il soldato protagonista è in un certo senso una vittima. Fa parte di una grande macchina bellica, “esegue gli ordini”. Il soldato individuale è impotente, non può fermare il massacro ma solamente riferirlo ai suoi superiori. In alternativa può “sparare e piangere” a posteriori oppure, come nel caso di Folman può affrontare amnesia o repressione.


Realizzato in modo bello ed intelligente, l’intero film è a figure animate tranne una scena (che non ne svelerò certo qui il contenuto per non “rovinarvi” la sorpresa) che sembra stare lì a dirci “Signori e signore, il seguente filmato non è una memoria personale. Questo è quanto è successo sotto i nostri occhi”.


Io per fortuna la guerra non l’ho mai vissuta e tanto meno sono stato un soldato… mi sono ritrovato comunque con le lacrime agli occhi sia mentre guardavo il film, sia dopo.


Chissà se un film del genere uscirà mai in Italia e se mai uscirà verrà sicuramente doppiato… Come se si potessero doppiare le grida delle madri palestinesi con le carcasse dei propri figli tra le braccia. Comunque, anche doppiato, andate a vederlo, per favore perché l’idea della guerra di Folman va oltre il sostenere una tesi anti-Israele o meno: il regista incentiva il recupero di una memoria scomoda e si scaglia contro ogni guerra, e contro quelle persone che mandano in battaglia i giovani, verso la paura e il dolore.


Claudio

Wednesday, 5 November 2008

"Così finisce una storia d'amore" di Concita De Gregorio.




La lettera è una qualunque lettera d'addio, se si può dire qualunque di un congedo.

Breve, una paginetta. Accendi il computer un giorno e lei è lì. Sta tutta intera davanti a te nel primo foglio dello schermo. Premi il cursore per scendere, ne cerchi ancora ma non serve: è finita. Lui è garbato, formalmente ineccepibile, apparentemente addolorato. È colto, inoltre. Un uomo che sa usare le pause e gli a capo. Sa toccare le corde dell'altrui colpa sfiorandole appena, sa attribuirne un poco a sé come un difetto congenito, piccolo male non imputabile. Uno scrittore, forse. Di certo uno che lavora con le parole. Il repertorio è classico, si direbbe un'antologia. "Avrei preferito parlarti a voce, infine ti scrivo". "Ho creduto che avrei potuto darti il bene" "che il tuo amore fosse benefico per me". "Non ti ho mai mentito e non comincerò a farlo oggi". "Mi dicesti che quando avremmo cessato di amarci non avremmo più potuto vederci: una regola che mi pare dolorosa e ingiusta. Tuttavia: non potrò diventare per te un amico". Alcune specifiche di questa storia, poi l'inevitabile "ti ho amata nel mio modo e continuerò a farlo, non cesserò di portarti con me". La chiusura, infine. "Avrei preferito che le cose andassero diversamente".

Le ultime quattro parole. "Abbi cura di te".


"Take care of yourself, prenez soin de vous, cuidate mucho". È qui, è sull'incongruenza emotiva di una frase che ha le sembianze di una premura - non si può respingere un invito così, eppure non si può accettare se allegato al dolore dell'addio - che Sophie Calle costruisce la sua opera d'arte. Il suo libro ha la copertina rosa, lucida come una carta di caramella. Se fosse tradotto in italiano (non lo è, per qualche misteriosa ragione non è tradotto nella nostra lingua nessuno dei suoi libri, nel resto del mondo oggetti di culto) s'intitolerebbe "Abbi cura di te". Seduce fuori e tormenta dentro. Fa ridere e fa piangere, ammala e guarisce. Non si può lasciare senza averlo attraversato fino in fondo. Ci sono tutte le domande, tutte le risposte: c'è soprattutto un'ironia formidabile, una malinconica saggia ironia venata di amarezza, la medicina di ogni male.

Calle è un'artista tra le più amate del nostro tempo. Un'icona della modernità, una Louise Bourgeois del nuovo secolo. Il Centre Pompidou le ha dedicato per i suoi cinquant'anni una retrospettiva. La Francia le ha affidato il padiglione di quest'ultima Biennale di Venezia: lei lo ha dedicato a raccontare come finisce un amore. Ha proiettato i video di molte delle 107 donne che leggono la mail di addio del suo amante: celebri e sconosciute, Jeanne Moreau e una studentessa di scuola media, Luciana Littizzetto e una cartomante, Victoria Abril e una stella dell'Opera. Un avvocato, una psicanalista, Laurie Anderson, una scrittrice di parole crociate, una campionessa di tiro con la carabina, una esegeta di talmud, Maria de Medeiros, la figlia "segreta" di Mitterand, una giocatrice di scacchi. A ciascuna ha chiesto cosa significa abbi cura di te, come si fa ad averne, come si affronta e come si supera il vuoto spaventoso dell'assenza? Ciascuna ha risposto nel suo modo: con un referto, con una canzone, con un gioco. La mostra, a Venezia - "Take care of yourself" - è stata visitata da migliaia di persone, è ancora lì fino a fine novembre. Il tam tam sotterraneo (dei visitatori, delle visitatrici) ne ha fatto una meta di pellegrinaggio. Di seguito è venuto il libro, ormai introvabile. Più di quello del 1981, L'Hotel: Calle si fece assumere a Venezia come cameriera in un albergo, fotografò le stanze appena lasciate dai clienti, i letti sfatti i loro oggetti abbandonati. Più di The adress book, 1983: trovò un'agenda per strada, chiamò tutti i numeri chiedendo a chi rispondeva di parlarle del proprietario, pubblicò tutti i giorni su "Liberation" i resoconti delle interviste infine un volume col ritratto collettivo di un uomo mai visto. Più ancora di "Double game" scritto a quattro mani con Paul Auster: lui si ispira a lei per il personaggio di Maria nel romanzo Leviathan, lei si immedesima in Maria e ne veste i panni.

Torniamo all'amore, però. Alla lettera. Al libro e al cammino che si attraversa per prendersi cura di sé. In principio la ragione: che il testo passi all'esame dell'intelletto, i freddi strumenti del raziocinio. La e-mail è tradotta in codice morse, in linguaggio esadecimale, in braille, in stenografico e in codice a barre. In trascrizione fonetica, in sms. Poi l'analisi del testo come fosse un canto della "Divina Commedia". Aspetto tipografico, paratesto, genere, enunciato, vocabolario, analisi logica e grammaticale. Lunghezza (con istogrammi in blu) delle ventidue frasi. Evidenza delle forme verbali: quanti gerundi, quanti imperativi, quanti condizionali. Frequenza del soggetto: io il triplo di tu. Riferimenti letterari. I Fratelli Karamazov, Resurrezione, La Repubblica di Platone. Per "abbi cura di te" senz'altro Emma di Jane Austen.

Ora che è stata sezionata come un corpo sul tavolo dell'anatomo patologo rivediamola da viva, questa lettera. Passi pure l'esame degli altri: le altre donne. Nelle mani di una cartoonist diventa una striscia comica, la giornalista di agenzia ne fa un lancio, il giudice una sentenza. La sessuologa risponde con una ricetta su carta intestata dell'ospedale: "No, non posso prescriverle antidepressivi. Lei è solo triste. Un evento doloroso fa male ma la soluzione non può essere chimica". La psicanalista si sofferma sulla "brutalità della vacuità della frase omicida finale": un "banale take care al posto di un addio. Come dire abbi cura di te stessa perché non sarò io a farlo". L'avvocato suggerisce due anni di carcere e trentasettemila euro di ammenda per il soggetto, colpevole di truffa e contraffazione. Florence Aubenas (giornalista lungamente sequestrata in Iraq) le scrive che la sua lettera non sarà pubblicata: troppo personale. La criminologa analizza il soggetto mittente: "Un uomo intelligente, colto, di buon livello socioculturale, elegante, seducente, orgoglioso narcisista ed egoista". "Psicologicamente pericoloso o/e grande scrittore". L'esegeta di talmud affronta sul testo una disputa rabbinica. Ne ragionano una filosofa, un'antropologa, un'esperta di diritti delle donne all'Onu, una docente di fisica. Marie Dasplechine, scrittrice, ne fa una novella per bambini. La maestra elementare in bella calligrafia la propone come compito agli alunni con cinque consegne: "Dai un titolo a questo racconto, chi è il protagonista? qual è il problema? In che modo il protagonista lo risolve? Trova un altro finale alla storia". Ambra, nove anni e mezzo, lo svolge: "Sembra che lui l'ami. Se l'ama non capisco perché la lascia. È una storia triste". La paroliera la trasforma nel testo di una canzone, la compositrice classica in un brano per pianoforte. L'esperta di bon ton la boccia categoricamente e propone un nuovo testo: sette righe scritte con penna stilografica su carta velina, impeccabili per assenza di vanità. La cartomante fa i tarocchi: l'eremita, il matto, l'imperatrice, la luna, l'impiccato. Un'agente dei servizi segreti la critta usando la parola chiave "rottura".

La redattrice di parole crociate ne fa un fenomenale cruciverba: memorabili le definizioni di "benefico", "irrimediabile", "amante". Per centinaia di pagine si avvicendano l'esperta di letteratura comparata e la sociologa (ne fa un saggio: "L'esacerbarsi dell'amore eterosessuale in Occidente"), la storica e la giocatrice di scacchi ("Il re nero perde: analisi della partita"). La latinista traduce: "Ego quidem voluissem res alio vertere. Cura ut valeas". Dunque in latino la frase omicida si dice così: cura ut valeas. L'architetto di interni ne fa mille copie da distribuire agli ospiti in visita, le impila in un contenitore, la contabile la trasforma in un bilancio economico del dare e dell'avere in amore. La maestra di ikebana due composizioni floreali, la madre una lettera alla figlia: "Amore mio, si lascia e si è lasciati, è questo il nome del gioco. Sono sicura che anche questo sarà per te fonte d'ispirazione artistica. Mi sbaglio?".

Già arrivati fin qui, a due terzi del libro, va meglio. Si è molto riso, si è molto ascoltato il rumore del mondo. Ecco dunque il momento di sedersi a godere lo spettacolo. Dei quattro cd rom allegati (la seduta dal consulente familiare, la conversazione con la speaker della radio, il film realizzato dalla regista Letitia Masson) l'ultimo contiene le immagini di chi ha risposto con la voce e coi gesti. Una clown. Una stella della danza all'Opera di Parigi. Jeanne Moreau che legge nella penombra di una stanza, commenta con voce roca, si ferma, riprende, si emoziona. La tiratrice di carabina che del foglio con la mail fa un bersaglio, prende la mira e spara. Luciana Littizzetto che la legge nella cucina di casa sua, a Torino, mentre affetta una cipolla: sarcasmo e lacrime. Victoria Abril ancora nel letto di "Legami" che dalle lenzuola sfatte rimprovera Sophie: "Gli hai dato troppe condizioni, gli hai detto che dopo la fine dell'amore non avresti voluto vederlo più, gli hai chiesto di non essere l'altra, la quarta delle sue donne. Ma, Sophie, in amore non si dettano regole. Hai sbagliato". Un'attrice giapponese con la maschera di gesso, una ballerina indiana che danza, una cantante di tango. Un pupo di cartapesta (femmina), una rapper. Un'interprete di fado portoghese, una soprano lirica, una cantautrice berlinese. Alla fine resta Brenda, maestoso pappagallo bianco con cresta dorata (femmina): col becco fa a pezzi la lettera, la assaggia, ne mangia un po', non gli piace, la butta.

Chiude l'autrice: una frase in caratteri minuscoli, ultima pagina. "Questo è tutto riguardo alla lettera. Non riguardo all'uomo che l'ha scritta...".

Il libro, naturalmente, è dedicato a lui.

Tuesday, 4 November 2008

"Il nostro posto" di Concita De Gregorio



Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti. Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.

Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo. Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato facile, relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.

Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.

Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente. È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più. Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza. “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro collettivo. L’Unità è un pezzo della storia di questo Paese in cui tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone. Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro – il senso di un impegno e di un’impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con l’avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l’università, la ricerca che genera sapere, l’impresa che genera lavoro. Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne. La cura dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l’acqua e la luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull’Europa e sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra uguali ma diversi. La garanzia della salute, del reddito, della prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena. Credo che la sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita, sulla realtà. C’è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo, metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo. Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno di noi. L’identità, è questo il tema. L’identità del giornale sarà nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in solitudine. C’è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno. Non ci si può tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo è il nostro posto.

Monday, 3 November 2008

She had so much love to give...

"She had so much love to give... and that, she knew, was good; for that is what redeems us, that is what makes our pain and sorrow bearable - this giving of love to others, this sharing of the heart." -


Alexander McCall Smith, In the Company of Cheerful Ladies










Che cosa fai quando hai paura?

Inevitabili i miei pensieri, le mie preoccupazioni… Londra, again. Ancora una volta. Ancora una volta solo, anche se solo proprio non lo sono… Ma come si fa a placare i pensieri? A chiudere l’ansia in una scatola e gettarla via?


Londra, dal mio punto di vista…

Strana prospettiva. La città “fa molto”. Inteso come luogo che condiziona umore, abitudini, pensieri e scansione del tempo. I luoghi, in generale “fanno molto”. I luoghi che cambiano aspetto hanno un potere ancora maggiore di incidere sulle percezioni. La sensazione è quella di un abbandono a una strana e inedita solitudine.




Non la sento come pesante. Credo di aver bisogno di misurarmi con una serie di silenzi e di pause a cui non sono molto abituato. Non si tratta di riordinare le idee e di arrampicarsi su labirintiche riflessioni per arrivare a chissà quale tipo di conclusioni. Si tratta più semplicemente di impegnare il tempo diversamente da come sono abituato a fare. Meno cenette, meno telefonate, meno “gigs” ( come dicono quelli che ne sanno…) e più palestra, più acqua e meno drinks, più libri e più bicicletta e soprattutto arte.





Sembrano quasi i buoni, nuovi, propositi per l’anno nuovo che verrà...



A me pare che il vero capodanno sia il primo di settembre. O giù di lì…


Sarà che i tanti anni della scuola e dell’università ce li ho ancora piuttosto presenti e che le abitudini sono difficili da modificare, ma io le aspettative le concentro tutte qui. Come si può pensare con lucidità e organizzarsi un anno intero con più alcool nelle vene che sangue e con quel freddo del primo gennaio che ti taglia la pelle e le ossa? Io ci penso in questi giorni ai prossimi mesi. Perchè la vanità della pelle ancora un po’ abbronzata e il ricordo del mare ancora vivo sono un bello stimolo per fare progetti.









Lo dico a te che mi stai leggendo, ma lo ricordo prima di tutto a me stesso, che la paura e l’insicurezza per ciò che ha da venire sono parte integrante e non secondaria di un progetto.
E che il punto di vista dal quale lo si guarda è fondamentale per la sua buona riuscita.


Quando sì è piccoli si è più capaci a parlare di “Sogni”; crescendo si fa più bella figura a parlare di “progetti”. Allora per un istante, proviamo a fare un passo indietro che può significare anche farne due avanti: torniamo a parlare di sogni ma con la promessa di tentare, per lo meno, a spiarli da un punto di osservazione diverso. Non sempre nella direzione della loro realizzazione e completezza ma magari anche nella fase della loro costruzione e nel loro divenire. Bello è scoprire che un Sogno se ha basi solide e convinte, regge bene anche di traverso.



Ci stiamo preoccupando per niente che non possa passare.
Buon Anno, Signore e Signori.


Claudio.




Friday, 31 October 2008

Scary Mary




Mary Poppins, bambinaia volante con ombrello parlante e inguardabili scarpe rosse, rappresenta tutto ciò che di male può esserci al mondo.


Per chi, come il sottoscritto, è parte integrante di quella generazione cresciuta a cartoni animati e relative sigle nei meravigliosi anni ottanta la rottura di un processo di sublimazione deve necessariamente partire dal fare a pezzi quella donna e il mondo che attorno a sé vorrebbe creare. Mary Poppins non ci propina il mito dell’eterno fanciullo, Mary Poppins non sogna un’umanità fatta di bambini, Mary Poppins vuole che i bambini diventino uomini mantenendo l’animo pronto allo stupore dei fanciulli: Mary Poppins è allora l’avanguardia della società a una dimensione, ciò che desidera è l’annullamento della coscienza critica. Ci si presenta discendente dalle nuvole mentre si imbelletta. Porta con sé il già citato ombrello a cui verrà affidata a fine film la “morale” della storia (un luogo comune dei più beceri che il bambino meno sveglio del pianeta ha già intuito durante i titoli di testa), e una borsa che poi scopriremo essere fatta con un tappetto: ATTENZIONE! non si tratta di riciclaggio, quella borsa può contenere (forse contiene) ogni cosa: la borsa è la delocalizzazione occultata che preserva il sereno occidente da un sacrosanto senso di colpa.


Prima scena: Bert, squattrinato artista, vestito come un deficiente sta intrattenendo un’allegra combriccola di attempati borghesi benestanti. Dice di recitare poesie comiche ma fa invece l’esatto contrario: sublima la realtà, o semplicemente mediante complimenti a sfondo vagamente sessuale: “lei ha solo due figlie ma… fan per sei” o più subdolamente dando titoli, potremmo dire epicizzando, le più comuni e umani attività: “Miss Lark/ va a passeggio/ nel parco/ con John” (aiutami a dire ‘sti cazzi), anticipando in qualche modo il minimalismo americano ma altrove rallegrandosi anche dell’uso della rima sbeffeggiando così le nascenti avanguardie. Allo spettacolino assiste imperturbabile una guardia che ovviamente non interviene (Mary Poppins non è un film, è un teorema), le masse borghesi soddisfano il loro impulso “artistico” e nessuno si è fatto male: tornate pure a casa. Ma ecco che mentre Bert sta per recitare la sua poesia ad una racchiona con paglietta qualcosa succede (era troppo anche per lui), il comico diventa un lirico, quasi un elegiaco e da perfetto idiota esprime allora la sua gioia stampandosi un piatto in faccia: tanto più stravagante tanto più artista, giubilo fra i borghesi.


L’incontro successivo è con l’ammiraglio Boom, un vecchio arteriosclerotico che in compagnia del suo mozzo obeso cannoneggia a salve il quartiere “bene” dove risiede la famiglia dei due piccoli protagonisti.


Ma veniamo alla famiglia Banks: incontriamo in primo luogo le due domestiche che si scannano come cane e gatto (in seguito all’arrivo di Mary Poppins andranno d’amore e d’accordo mandando a farsi benedire la sacrosanta rabbia sociale che prima o dopo si sarebbe altrimenti indirizzata contro il giusto bersaglio). Arriva la madre cantando: bambolina casalinga cerebrolesa e succube del marito che ironicamente si batte per la conquista del suffragio femminile (il suo compito consiste nel tirare ortaggi contro il primo ministro, figuriamoci se le donne potevano avere un serio progetto politico).


Thursday, 30 October 2008

I was lost in your eyes while standing still.



I was lost in your eyes while standing still.


As I close my eyes I still see your face with its every line and delicate detail, you are embedded in my mind. Did I trip, lose my balance, did I let you go too soon? I reach out for your touch every time you were near, though my hand does not move, my heart throbs, wanting you to love me too. My breath has turned mellow yet a moment ago when you walked by I could feel the humid from my tongue.


You make me so nervous but you make me feel so human. You compare nothing to my fantasy.


Oh to kiss again your lips would be beautiful and would bring a spark to my eyes, but I can only fantasize today.


Did I say too much, or I did not say enough?
Claudio.


Wednesday, 29 October 2008

Lo stato delle cose.




E' andando via che si rimane…


Non tutto ciò che viene fatto per Amore è comprensibile.


Quasi tutto è giustificabile. Il male che si fa a sè stessi, gli errori ripetuti fino allo sfinimento, le valige fatte di fretta, le assenze ingiustificate, le presenze, che spesso, lo sono ancora di più, le lettere che sostituiscono la voce, la voce che dice stronzate, le canzoni degli altri che ti sembra di averle capite e che ti sembra abbiano capito te.


Non è col sensazionalismo che si guarisce. Non si dimentica l’Amore prendendo un aereo o un’ eurostar. Non è percorrendo distanze enormi senza toccare il terreno che ci si allontana da ciò che punge. La strada fatta a piedi porta fatica ma insieme pure consapevolezza, prima dei centimetri, poi dei metri e dopo ancora, perfino dei chilometri fatti.


Piano piano. Come dicono gli anziani.


E’ solo andando via piano piano che ci si volta a guardare quello che rimane.


Claudio.